22 FEB
Farfalline e reti(ni) di Stato
Pubblicato in: Cultura, Media, Televisione | 22 febbraio 2012 - 21:31

Qualche ora prima che la farfallina di Belen discendesse sapientemente la scala del Teatro Ariston, a L’Aquila, 4 nostri connazionali avevano infierito barbaramente sul corpo di una studentessa disponendone come cosa loro. Metto le due cose insieme non in quanto eventi quasi contemporanei ma perché sono indubbiamente due rappresentazioni dello stesso pensiero.

Quando una donna usa il proprio inguine per procurarsi consenso, simpatia, notorietà, nuovi ingaggi e denaro, fa riferimento alla possibilità che il corpo femminile possa essere usato come merce di scambio. Se può essere scambiato, usato, venduto, il corpo femminile è quindi materia, merce, oggetto. Se il corpo è un oggetto, inoltre prevalente e desiderabile (visto il livello d’esposizione e persuasione), lo spirito che lo abita può diventare irrilevante, persino ingombrante, un inutile intralcio all’accaparramento dell’oggetto in questione. L’ultimo passo di questo processo è il dissolvimento della sovranità sul proprio corpo e l’approdo alla sottospecie umana de L’Aquila.

Vorrei precisare che non ho nulla contro l’utilizzo che ciascuno fa del proprio corpo in una sfera squisitamente privata, ivi compreso la vendita e l’utilizzo dello stesso per scopi altri dal proprio piacere. Vendersi è per quanto mi riguarda parte della libertà personale e del personale percorso di senso di ciascuno. Ben altra questione è a mio avviso vendere il proprio corpo in televisione o comunque attraverso media di grande diffusione. Se ti vendi nel tuo appartamento o sul divano del produttore disponi del tuo, se ti vendi in televisione vendi anche me.

Quando una donna scambia nudità con consenso dinanzi a un vasto pubblico, coopera a creare un’idea sociale con la quale anche io dovrò fare poi i conti nel mio quotidiano. Anche a me toccherà fare le spese nel mondo reale di un modo di intendermi che non ho collaborato a creare.  

Sarà l’universo femminile ordinario a dover fronteggiare ogni giorno l’idea costruita su di sè senza il proprio consenso, a dover districarsi tra motti, lazzi e doppi sensi nella migliore delle ipotesi,  fino alla possibilità di imbattersi negli orchi che hanno portato la filosofia delle farfalline alle estreme conseguenze.

Questo non può essere concesso, né ulteriormente frainteso o creduto acettabile.

Non desidero invocare ipocrite protezioni per una fragilità di genere che so essere esclusivamente culturale, le cui condizioni vengono però create e incoraggiate irresponsabilmente. Mi limito a desiderare che non si contribuisca a mettere in campo con deprecabile leggerezza idee, immagini, contro le quali all’umanità femminile “reale” tocchi poi ogni giorno, là fuori, risalire la corrente. 

Non mi appellerò per questo al buon senso di tutte le Belen del mondo. Fin quando vi sarà un contenitore disponibile e volenteroso per la miseria dei singoli, sarà difficile che si sfugga alla tentazione di usarlo. 

E’ al contenitore che intendo rivolgere la mia attenzione, quel contenitore dal quale, per la sua specificità, è lecito aspettarsi qualcosa di diverso.

Al riguardo infatti la cosiddetta televisione di stato è particolarmente colpevole. Essendo posseduta dallo stesso organo (lo Stato appunto) a cui tocca investire risorse per politiche di prevenzione, contenimento e persecuzione delle devianze sociali, sarebbe lecito aspettarsi che si astenesse accuratamente dal veicolare la miseria culturale che di quelle devianze costituisce l’humus. Qui invece abbiamo un’azienda di stato che promuove liberalmente sottocoltura in una forsennata competizione al peggio con la tv commerciale. C’è da chiedersi quale assurdo senso possa avere per uno stato agire attraverso un suo organo contro se stesso, fare con una mano il contrario di quello che fa con l’altra. 

Le motivazioni dell’attuale stato di cose si sono accumulate nell’arco degli ultimi 20 anni e in qualche caso sono ben note. Mi limito qui a dire, con tali riflessioni in mente, che diventa particolarmente urgente una riforma della televisione di stato, che la sottragga per esempio alle attuali modalità di raccolta pubblicitaria, e che comunque la sganci da meccanismi di mercato all’ingrosso e le consenta di ricoprire il solo ruolo che logicamente le spetta nell’attuale scenario economico-sociale, che non può che essere l’esatto contrario di quello attuale. Non vedo quale potrebbe mai essere infatti il motivo che giustifichi la persistenza di una tv di stato in un panorama televisivamente così ricco. Certamente non l’affiancarsi al mercato, ma coprire, nell’interesse pubblico, lo spazio che gli è estraneo.

 

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