21 APR
La folla per Rodotà Presidente

Nei giorni scorsi, per la prima volta nella storia repubblicana, cittadini italiani si sono assiepati davanti al Parlamento per invocare l’elezione di un Presidente della Repubblica.

 

È indubbio che la presenza di una nuova forza politica in Parlamento fortemente connessa, nella sua filosofia e metodologia, con l’esterno del Palazzo, che riconosce a coloro che stanno fuori la sovranità sul loro agire, il diritto a sapere e –addirittura- a dirigere, le decisioni che saranno prese poi all’interno, abbia ispirato l’immaginario collettivo ad agire per la prima volta in quello stesso solco di pensiero e azione. Quella folla assiepata nella piazza di Montecitorio, che non era formata dai soli simpatizzanti del M5S, ma si è fatta via via sempre più trasversale, lì fuori e nel paese tutto, ha invocato, come risvegliandosi da un’anestesia epocale, il diritto di veder realizzata la propria volontà attraverso i suo rappresentanti. Quella folla si è ricordata di essere sovrana.

 

È da questa assoluta novità, a mio avviso, che bisogna partire per capire cosa è accaduto negli ultimi giorni. Dalla novità di un popolo che, ispirato da una parte, si è ricordato poi in maniera virale del proprio “diritto ad avere diritti”(S. Rodotà).

 

Perché il Palazzo non ha ceduto nonostante la potenza della richiesta? Perché pur di non cedere è stata provata qualsiasi pur distruttiva e deflagrante alternativa? Perché pur di non cedere sono stati immolati nomi illustri, polverizzati consensi, rischiato il tutto per tutto? Quale superiore convenienza si stava difendendo?

 

È stato detto che è perché Rodota è temuto per la sua onestà, ma il Presidente della Repubblica non ha poteri di persecuzione di crimini e criminali; si è detto che è perché è un nome uscito dal M5S, ma con la lunga scuola di manipolazione comunicativa a disposizione, il PD avrebbero potuto trasformarlo, solo a volerlo, in un uomo della sua parte (Rodotà in effetti lo è già) e di sua scelta. E allora perché?

 

La chiusura del PD a Rodotà è stata semplicemente la chiusura del sistema partitico all’affermarsi nelle stanze del palazzo della volontà popolare. Far passare Rodotà avrebbe voluto dire porre in essere un pericoloso (per loro) precedente dal quale il sistema partitico italiano, come lo conosciamo, non sarebbe mai più potuto tornare indietro, e dal quale sarebbe stato in breve tempo divorato vivo. Come lo fermi un popolo che si galvanizza del suo potere di chiedere e ottenere? Come lo fermi se si innamora di se stesso e si ricorda di essere il padrone? E soprattutto cosa resta di te, che di mestiere fai il padrone, se la politica si trasforma in ascolto e reale rappresentatività? Accettare di poter dare al popolo il suo Presidente della Repubblica, significava dovergli poi dare il suo Presidente del Consiglio, il suo presidente del Senato, della Camera, delle commissioni, segreterie, e infine le sue leggi.

 

La lotta che si è giocata in questi giorni è avvenuta tutta tra l’affermarsi della sovranità popolare e la resistenza della sovranità partitica. Per questo sistema partitico vincere le elezioni significa, da sempre, conquistare per l’appunto il carniere completo delle cariche e prebende per la gestione delle dirigenze, con le quali nutrire l’accrescimento delle clientele e del consenso, per alimentare la successiva vittoria politica, e così avanti, in un delirio circolare e vizioso senza fine.

 

Dar via (al popolo poi!) un presidente della repubblica senza alcuna contropartita, accordare “aggratis” una carica istituzionale che è sentita da sempre come parte delle proprie disponibilità, era fuori discussione. Legittimare l’ascolto dei cittadini come metodologia politica, rassegnarsi alla democrazia, quella cosa che non consente la gestione di cariche e potere, perché avoca a sé ogni potere, avrebbe svuotato di senso e sostanza in un attimo il vecchio mondo politico. Ed ecco perché sono arrivati a giocarsi anche pezzi di se stessi, perché è meglio sopravvivere a pezzi che dissolversi. Un dirigente del PD, dopo la rielezione di Napolitano, alla domanda di un giornalista che gli faceva però presente che avevano una base molto arrabbiata, rispondeva col sorriso largo, rilassato di un sopravvissuto, “gli passerà”.

 

Così ieri, terrorizzato dall’avanzata del popolo all’interno del palazzo, il sistema partitico ha consumato le ultime disperate barricate nascondendosi, come ragazzini spaventati, dietro i calzoni di un uomo anziano, perché li difendesse dalla mostruosa creatura con la quale non hanno familiarità (ricordate la Finocchiaro del ”non capisco chi sono questi signori”?). Sapevano di poter trovare comprensione. L’uomo a cui hanno chiesto protezione, come loro, teme il cambiamento ed è pronto a qualsiasi disperata mossa per evitarne l’avanzata. Come loro, ha speso la maggior parte della sua esistenza in questo sistema partitico, come tutti loro si identifica con quel sistema, che è ormai la sua casa, la sua vita. La messa in discussione degli assiomi su cui si fonda manderebbe in pezzi la sua stessa identità. Da qui l’estremo sacrificio di rendersi nuovamente disponibile.

 

Abbiamo visto tutti, i sorrisi distesi in Parlamento al raggiungimento dell’accordo. Era il sollievo di un sistema che aveva ristabilito finalmente -dopo essersela vista proprio brutta- le condizioni ambientali per la propria sopravvivenza.

 

La pagina è assai triste, amarissima. E ci lascia oggi addosso il dolore dell’ennesima possibilità perduta. Dell’ennesima speranza di veder finire l’incubo delle verità tradite e cominciare l’epoca delle verità ristabilite.

 

Ma vorrei, in chiusura, dire 2 cose. La prima è:  fiducia. Quello che si è consumato ieri è stato solo l’arroccamento, sulla torre più alta del fortino, di un sistema che non risponde più alla Storia. L’affermazione di una più compiuta democrazia è la logica necessità di questo tempo e questo paese non potrà sfuggirvi ad oltranza. Come l’affermazione dei partiti di massa nel secolo scorso fu la necessaria risposta storica alla società delle masse impoverite e schiavizzate dall’industrializzazione, così oggi, con la stessa potenza, l’affermazione di una più matura democrazia, nelle sue forme più dirette (possibilità di sapere, deliberare, incidere dall’esterno), è la logica risposta storica all’attuale blindatura di tutte le elìte finanziario-economico-politiche in un sol corpo, un unicum auto-referenziale finalizzato all’esclusivo accrescimento di se stesso. In presenza di forti condizioni di sofferenza sociale e in assenza di percorsi di reale rappresentatività dispiegabili attraverso le vecchie dirigenze partitiche, non esiste altra evoluzione possibile. Perciò, è solo questione di tempo, ma la partita della storia per questo turno è destinata alla democrazia diretta.

 

Intanto, però -e questa è la seconda cosa che tenevo a dire-, mi auguro che superata la rabbia e il dolore di queste ore, le forze di trasformazione attive nel paese procedano in direzione, se possibile, ancora più ostinatamente democratica. E non che questa classe dirigente non meriti di essere disprezzata, ma sarebbe veramente da sciocchi offrire a questa gente -che i libri di storia chiameranno un giorno finalmente col loro giusto nome- il pretesto per chiamarsi vittime, e chiamare la nostra disperazione volgarità o violenza. Il disprezzo per questa classe dirigente, non dissimulabile oltre, si nutra della nostra forza interiore, della nostra intima certezza di essere nel giusto. Se democrazia deve essere, facciamola perfetta.

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