29 MAR
Cari professori, gli esami sono finiti
Pubblicato in: Economia, Politica, Società | 29 marzo 2012 - 16:14

Non so voi, io li guardo e li ascolto da mesi in stralunato silenzio. Un po’ di iniziale sollievo l’ho provato, lo confesso, e non per lo spread come forse ragionevole aspettarsi, piuttosto per la gradevole variazione del sottofondo di accompagnamento. Che il chiassoso spettacolo da fine regime fosse stato sostituito da un nastro scorrevole di voci basse e nasali mi stava sinceramente bene, per il resto per la verità mi ero posta in curiosa osservazione di questo nuovo, così italiano, 8 settembre. Quale raro privilegio esserci, infatti, mentre si rimette in scena il mistero di un paese che all’occorrenza -solitamente il momento di pagare il prezzo della propria storia- sa gettarsi qualsiasi presente alle spalle trasformandolo con fulmineo e tacito accordo collettivo in passato remoto. E invocando, fuori da ogni regola fin lì eventualmente condivisa e dal principio di causa-effetto, il diritto storico a un destino sempre positivo.

Ma il nostro più recente prodotto, il governo più politico che si sia mai visto, non poteva che divenire, per l’eccezionale genesi, velocemente ben più interessante della nostra stessa attitudine ai pasticci storici. Forte in parlamento di un terrore bipartisan ad assumere su di sé i (propri) peccati, e internamente di ambizioni forgiate a una prospettiva univoca e diversa dalla conservazione del consenso, sta condividendo con il paese in didattica sequenza ordinata e con spavalda pedanteria ogni giorno crescente, le conoscenze apprese nei lunghi anni di studio.

Ne è conseguita ad oggi una varia macelleria sociale, rispetto alla quale siamo chiamati a comprendere, dopo ripetute spiegazioni, che l’applicazione della manualistica universitaria alla vita reale ha come suo fondamentale corollario la necessarietà del dolore sociale ai fini della felicità futura, e che tanto ci deve bastare.

Tra un colpo e l’altro inferto al presente in nome del futuro, intanto li abbiamo visti e uditi pronunciarsi indignati, e talvolta, a dire il vero, meno sobri dell’iniziale esordio, per gli “sfigati” che non si laureano a 28 anni o per una “paccata” di miliardi assegnata senza contropartita; preoccuparsi per la nostra irrimediabile tendenza a nutrirci di pasta al pomodoro e goderci dissennatamente il sole in assenza di correttivi legislativi alla nostra indole; cambiar nome al sussidio di disoccupazione in, più o meno, sussidio “Per l’Impiego” perché non sorgessero equivoci sulle motivazioni dell’aiuto di stato o tentazioni al nostro lassismo, si sa, post-licenziamento; li abbiamo altresì uditi dirsi ambiziosamente ansiosi di cambiare il nostro modo di pensare e infine, dopo ogni ragionevole tentativo di piacerci con le buone, rabbonirci senza tentennamenti a non coltivare illusioni sulla possibilità di modificare l’ineluttabile.

Ora, rompendo il silenzio col quale purtroppo sempre mi viene da accompagnare ciò che mi sembra subito troppo al di là della mia povera immaginazione, e volendo precisare, si potrebbe obiettare, restando in ambito squisitamente economico, che sfogare a posteriori sul piano reale quanto appreso in un lontano passato universitario equivale a voler raggiungere le Indie attraverso l’Atlantico con le mappe del ’400, capita cioè di imbattersi in altri continenti. Il riferimento obbligato è all’ideologia di cui l’attuale esecutivo appare evidentemente intriso. L’ideologia del libero mercato e della crescita infinita alla quale sembrano informati tutti i maggiori provvedimenti legislativi fin qui presi, si nutre in prima istanza di demografia e successivamente di compulsione al superfluo, aggiungerei, per più recenti consapevolezze, di uno scenario ambientale a sostenibilità infinita. Non si comprende pertanto, non disponendo di nessuno di questi elementi, a quale futuro si stia lavorando. L’impressione, da un modestissimo osservatorio ordinario, è che il tempo a cui ci si ostina a pensare sia definitivamente tramontato e che la storia si stia già riscrivendo da tempo con diversi parametri per intrinseca necessità. Che occorrerebbe piuttosto saper guardare il presente per aiutarlo a trovare i suoi nuovi sistemi virtuosi all’interno di ciò che di nuovo è già accaduto, e che appare crudelmente inutile costringere al sacrificio sociale altre generazioni in nome di un futuro che non si conosce e che si sa volere solo ostinatamente uguale al passato.

Sul piano invece squisitamente sociale, e oserei dire politico, pur consapevoli di non essere innocenti, pur non sfuggendoci affatto che per una democrazia di qualità occorra un popolo di qualità e che tale compito è nostro ed è tutto da compiere in questo paese, cionondimeno, è doveroso per noi precisare, cari professori, che le cadute di stile sempre più ravvicinate nel tempo che state dedicando a un popolo che evidentemente non conoscete -visto che ne omettete esclusivamente nei fatti e nelle parole la quotidiana fatica di vivere onestamente-, ben lontane dal sembrare battute occasionali, appaiono esattamente per quello che sono, sprizzi rivelatori di una visione lungamente coltivata all’interno di un fisso perimetro sociale e sempre peggio trattenuta all’aumentare dell’approvazione internazionale, di paternalistico dispregio del carattere nazionale. Spiace sinceramente dire che a conclusione dell’ultimo ventennio non se ne sentiva il bisogno. E spiace sinceramente dire che, come i signori in parlamento ai quali unicamente credete di dover dar conto, apparite ad oggi come un altro aspetto della nostra infinita anomalia.

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