9 MAG
Minuto di silenzio per Andreotti stadio di Torino

L’imbarazzo che proviamo nell’esprimerci con chiarezza su una persona morta -che non stimavamo da viva- dipende unicamente dalla nostra paura della morte. Come per una malattia, o per una qualunque altra sciagura, anche per la morte, attiviamo infatti un istintivo senso di colpa all’idea di infierire, da una posizione positiva, su chi ha vissuto o vive una sofferenza, immaginando la morte come la peggiore di tutte. Ma la morte non è sofferenza, di fatto è la sua assenza. E soprattutto, la morte, a differenza di malattie e sciagure varie, non è una realtà alla quale ad alcuno è dato sfuggire, pertanto come destino ineluttabilmente comune può al contrario sollevarci da ogni senso di colpa e reticenza espressiva e consentirci la massima libertà e imparzialità.

 

Ed ecco che liberati dal senso di colpa, non più concentrati sull’epilogo, diventa semplice guardare la vita che c’è stata prima. Che essendo il territorio del libero arbitrio, cioè quella parte che dipende totalmente dalla volontà del singolo, può essere giudicata, e deve esserlo se, in particolare, quella vita è stata spesa nella sfera pubblica.

 

E quindi cosa dire di Giulio Andreotti? Non ricorderò le volte che è diventato Presidente del Consiglio (7) o ministro (22 volte, un record assoluto), né -deludendo qualcuno probabilmente- intendo parlare dell’accusa di associazione per delinquere e di tipo mafioso (colpevolezza confermata in appello, poi decaduta solo per prescrizione), perché sono convinta che il punto non sia di cosa nei dettagli quest’uomo si sia macchiato davanti alla legge. Il punto è purtroppo che costui ha coperto 70 anni della nostra storia politica e lo ha fatto con uno stile che ha segnato drammaticamente il nostro pensiero, il nostro costume e di conseguenza i modi in cui la nostra vita è organizzata e attualmente si svolge. Mi fa piacere riportare alcune tra le affermazioni più precise e lucide sull’argomento:

 

“Un politico convinto dell’irredimibilità della corruzione e delle collusioni, che usò a piene mani senza mai provare a combatterle” (M. Travaglio).

 

“Andreotti ha ammorbato la politica di un morbo di cui difficilmente ci libereremo nei prossimi anni, la politica dell’interesse particolare che si sostituisce a quello generale” (N. Dalla Chiesa)

 

“Ci hanno convinto che essere cinici sia una virtù e che essere buoni è da coglioni, ci hanno insegnato a dividere il fine dai mezzi e giudicare solo il risultato, [Giulio Andreotti è] il maestro di questa perversione diventata buona educazione”. (G. Cavalli)

 

Laddove cioè la politica è, o dovrebbe essere, un costante tentativo di migliorare il presente, Andreotti ha esercitato la politica come arte del mantenimento dello status quo con qualunque mezzo e a qualunque costo, avallando qualunque costume e sistema servisse allo scopo, corruzione, clientela, parassitismo, complottismo. Riuscite a immaginare l’effetto di 70 anni così su un paese intero? Quale sia il prezzo pagato e il tempo storico sprecato sulla strada del nostro progresso?

 

Per questo e solo per questo scrivo questo post, non per rabbia verso il passato -che non serve al futuro-, ma per quello che c’è da fare al proposito. Perchè il danno perpetrato, essendo culturale e prolungato, è il peggiore e il più pervicace da estirpare, e non potrà essere riparato se non con collettivo e prolungato sforzo. E chiamare le cose col loro nome fa parte della soluzione.

 

Se ci rassegniamo infatti a sentir chiamare statista un Andreotti, dove troveremo mai più le parole per definire un De Gasperi? Se partecipiamo a un minuto di silenzio (di omertà, ha detto qualcuno) per un Andreotti cosa resterà a nostra disposizione per rappresentare il nostro dolore per un Falcone?

 

Il paese, le nostre vite, portano i segni pesanti del passaggio dei politici come Giulio Andreotti, il craxismo e il berlusconismo di ancor triste attualità, sono frutti dello stesso albero, della politica come gestione del presente all’esclusivo fine del mantenimento del potere da parte della stessa immarcescibile elìte. Non possiamo più consentire che le vite e le storie, e la fatica che hanno fatto alcuni per vivere e testimoniare la verità, e la leggiadria di quelli che hanno reso pesanti le loro vite con le loro azioni o omissioni siano messe sullo stesso piano.

 

Non possiamo, non vogliamo, non lo faremo. Diciamo chiaro e con forza che i morti non sono tutti uguali, che non consentiamo a nessuno di nascondere la propria vita dietro la morte, a nessuno di rendere incerta e illeggibile la verità, indistinte le differenze. Distinguiamo benissimo tra vita e vita. E la novità è che, a quanto pare, non siamo più né da soli né pochi.

 

Ieri, in tutti gli stadi di calcio italiani in cui la FIGC ha avuto il cattivo gusto di promuovere un minuto di silenzio per la morte di Andreotti, quel minuto è stato pesantemente fischiato e avversato con cori e botti. E, udite udite, nella curva del Torino, sono state innalzate, di fronte a quella richiesta di partecipato cordoglio, in risposta a un establishment che ancora crede di tenere in pugno l’immaginazione di un popolo, le immagini di Falcone e Borsellino.

 

Carmelo Albanese in facebook ha commentato : quei “fischi fatti dalla pancia di quello stesso proletariato cui rivolgeva le sue parabole sul presunto fascino del potere, dimostrano quanto sia stata inutile e per certi versi miserabile la sua vita. Persino questa platea, sensibile alla retorica della vittoria e della sconfitta, rifugge dal culto esplicito dell’arroganza”.

 

Proprio quel popolo, quello che immagini dei bassi istinti, quello che non te l’aspetti, ieri poneva il ricordo di magistrati uccisi dalla mafia come la sua equazione col rispetto. Ecco cosa è rispettabile, diceva al potere, state mentendo, conosciamo la verità, e ne mostrava la foto. Cosa dire, per chi come me da decenni assiste sconfortata all’evidenza di una nazione che è sembrata troppo spesso corrompersi volentieri, oggi è un gran giorno.

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