10 LUG
La nostra “casuale” infelicità
Pubblicato in: Le nostre idee, Noi, Società | 10 luglio 2011 - 16:55
La nostra casuale infelicità

Ogni nuova determinazione collettiva nasce dalla generale presa di coscienza di un’ingiustizia in corso. La presa di coscienza richiede due elementi, l’esperienza individuale per tutti dell’ingiustizia, e uno o più individui (meglio più) che vedano la radice comune delle sofferenze individuali e rivelino ai singoli il carattere reale, collettivo e non necessario di tali sofferenze individuali.

 

Roberto ha una piccola azienda di grafica, da qualche mese lavora tutti i giorni fino alle 11 di sera, spesso anche nel fine settimana. Passa dalle 12 alle 14 ore al giorno davanti a un PC. Ultimamente quando capita d’incontrarlo, ti abbraccia automatico e ti dice monotonico che è contento di vederti. Tutti gli crediamo, perché non c’è mai stato nessuno più socievole di lui, anche se ha lo sguardo assente. Quando l’occasione lo consente si mette da una parte e si limita ad ascoltare, è talmente stanco da non riuscire a prendere parte alla conversazione. Se glielo chiedi, ti dice inespressivo che il periodo è quello che è, e che bisogna lavorare il doppio se si vuole sopravvivere.

 

Carmela è contabile in un’azienda di alimentari. Carmela lavora molto, fa quasi regolarmente straordinari. L’azienda per la quale lavora non ha problemi, ma il suo capo, ispirato dal momento, ha colto l’occasione per parlare di emergenza e chiedere a Carmela “di dare di più”. Carmela ha una tendinite al gomito che non la fa riposare di notte, le sono stati prescritti due cicli di terapia laser per alleviare i dolori, ma non potrà curarsi per molto tempo. Le terapie dovrebbe farle al pomeriggio, ma gli orari del centro di fisioterapia erano già incompatibili coi suoi normali straordinari, figuriamoci con la nuova stagione dell’emergenza. A chi le chiede come va, dice che il suo capo è uno stronzo.

 

Elena è sempre stata uno spirito vivace, più di tutto le è sempre piaciuto imparare cose nuove. Per esempio, da ragazza, ha sfruttato ogni occasione di studio e viaggio per imparare le lingue e oggi ne parla 3. Ha anche una laurea presa in tempi record e due master. Ogni volta poi che nel lavoro si è trattato di cambiare, prendersi nuove responsabilità, non si è mai tirata indietro, sempre pronta, sempre entusiasta. Oggi ha 40 anni, lavora da 10 nella stessa azienda ed il suo lavoro non ha oramai alcun segreto per lei. Elena da qualche anno sente che sta in qualche modo “invecchiando” e che sarebbe ora di cambiare società o mansioni per tornare a imparare, per rimettere in moto l’entusiasmo. Ma qualche cosa sembra essersi inceppato nel suo destino, qualcosa non risponde più come prima. Ci prova da 5 anni ormai a cambiare lavoro senza successo. Sta cambiando lei intanto, si sta dicendo cose nuove, mai dette, si sta forzando a rassegnarsi per non sentirsi più tanto inquieta. Se le chiedi cosa accade, ti dice che è stata sfortunata a nascere lì dove ci sono così poche opportunità.

 

Roberto, Carmela ed Elena stanno soffrendo ma non sanno l’uno dell’altro, e soprattutto non vedono cause più generali alla propria sofferenza, se la prendono con i referenti immediatamente visibili, il periodo, il capo, la sfortuna. Roberto, Carmela ed Elena collaborano così come sono ad un’evoluzione politica -cioè della propria vita- uguale a zero.

 

L’Italia che conosco è a buon punto nella percezione delle proprie personali sofferenze -e probabilmente nei mesi a venire avrà modo di affinare ulteriormente tale attitudine-, ma ancora lontana dalla consapevolezza di esser parte di una sofferenza collettiva, le cui responsabilità sono individuabili con precisione, e nuovi obiettivi comuni perseguibili con altrettanta precisione.

 

Qualcuno dovrebbe dire da un palco, da un microfono, da un luogo più ampio e sonoro di un piccolo articolo come questo, che le nostre sofferenze sono una, una sola sofferenza di popolo, causata da un sistema paese la cui stragrande parte della classe dirigente è incapace a svolgere il proprio mestiere in maniera ampia e moderna, perché spesso messa al proprio posto per la più immeritevole e ignorante delle logiche, la clientela; che è causata da una totale assenza di cultura della legalità che sostiene e promuove gli spregiudicati ed espelle ai margini i miti. E che questi elementi riverberano nelle nostre vite minute, nella fatica in più che richiede sopravvivere a “un periodo” ampiamente preannunciato ma del quale nessuno si è curato in anticipo, nella frustrazione che ingoiamo quotidianamente nell’opporre le nostre deboli resistenze ai nostri miopi capi, nella rassegnazione che sta spegnendo lo splendore della nostra energia vitale in un mondo tenuto immobile dagli interessi chiusi delle dirigenze, nelle lacrime che versiamo ogni giorno, sulle spalle dei nostri compagni, amici, da soli, per le nostre vite così pesanti.

 

Sì, qualcuno dovrebbe dircelo. Qualcuno dovrebbe proprio dircelo che si può smettere di chiamarla sfortuna, caso o destino, e pronunciare parole ampie solidali e condivise per le nostre individuali fatiche di vivere. Qualcuno dovrebbe rivelarci un’altra possibile storia collettiva.

 

(Apparso in Agoravox il 23 marzo 2009)

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